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- Rischio Geologico -
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RESILIENZA

La parola resilienza proviene dal latino resalio cioè “capacità di un sistema di reagire ad urti improvvisi e destabilizzanti” in quest’ambito la resilienza è la capacità della popolazione e del territorio che fa riferimento a tutte le risorse che possono essere attivate per ripristinare le condizioni iniziali, a seguito del verificarsi di un evento incidentale o calamitoso.

In Protezione Civile conoscere preventivamente la capacità di reagire di un paese è alla base della ricostruzione di quest’ultimo. Infatti, sulla base della capacità di resilienza la Protezione Civile valuta le attività da intraprendere sia durante sia nel post-emergenza.

La resilienza di una popolazione si compone di due fattori: la capacità di far fronte all’emergenza e la capacità di ripristino della situazione iniziale.

La prima è strettamente legata alla presenza sul territorio di un sistema di protezione civile composto da enti e volontari che possano in un primo momento fronteggiare l’evento, più specificatamente infatti la capacità di far fronte ad un’emergenza di un territorio dipende da due metodologie d’azione: la vera e propria azione di Protezione Civile e l’intervento volontario e autonomo dei cittadini.

La capacità di ripristino invece non è diretta responsabilità della Protezione Civile ma riguarda tutti gli strumenti ed i mezzi che possono essere attivati per limitare il danno e ripristinare le condizioni iniziali

Quest’analisi ci porta alla conclusione che la resilienza di una popolazione è strettamente legata alla conoscenza dei cittadini.

Questa sezione del sito si propone di coadiuvare l’informazione diffusa dagli enti preposti al fine di informare e diffondere i cittadini sui rischi geologici interessanti il nostro Pease.

Il rischio geologico secondo la definizione di David J. Varnes del 1984 è l’entità del danno atteso in una data area e in un certo intervallo di tempo in seguito al verificarsi di un particolare evento calamitoso.

In termini formali il rischio è espresso con la seguente equazione:

(Eq. A)

nota come Equazione del Rischio che mette in relazione la pericolosità (H)

calcolata sulle caratteristiche del territorio, la vulnerabilità (V) e l’esposizione (E).

La pericolosità (H, Hazard) indica la probabilità che un evento con intervallo di intensità noto occorra in una determinata area ed entro un certo intervallo di tempo quale, ad esempio, il tempo di ritorno (tempo medio di attesa tra il verificarsi di due eventi di simili caratteristiche o, in altre parole, il grado di rarità di un evento).

Trattandosi di una probabilità, H è un numero puro, variabile nell'intervallo da 0 a 1, ed è direttamente proporzionale all’intensità dell’evento (I), ovvero la severità geometrica o meccanica del fenomeno potenzialmente distruttivo.

La vulnerabilità (V, Vulnerability) è il grado di perdita prodotto su un elemento o un insieme di elementi esposti all’evento calamitoso, e può essere anche descritta come la capacità della popolazione, dei servizi, delle infrastrutture e degli edifici di tollerare gli effetti provocati dal fenomeno. V dipende dalle caratteristiche dell’elemento considerato (E) e non dal suo valore economico o dall’intensità del fenomeno, e si esprime con un numero puro che varia da 0 a 1 (o con un valore percentuale da 0% a 100%) rispettivamente in caso di nulla o totale perdita del bene esposto.

L’esposizione (E, Exposure) indica il valore degli elementi a rischio e viene espressa o con il valore delle risorse naturali ed artificiali esposte ad un determinato pericolo e/o con il numero di vite umane presenti nell’area a rischio. Spesso tale parametrizzazione è calcolata escludendo dal valore la popolazione a rischio in quanto quest’ultima non è spesso univocamente quantificabile.

Quest’analisi mostra come il rischio (R) possa essere mitigato agendo sia sul fenomeno sia sul territorio. È fondamentale conoscere il più precisamente possibile.

le caratteristiche dell’evento, le cause, le dinamiche e il rischio potenziale in modo da ipotizzare uno scenario realtà attendibile e realistico.

Disporre di modelli previsionali affidabili è presupposto per un’efficace azione su uno o più dei parametri che compongono l’equazione del rischio (Eq. A), a fini di mitigazione e prevenzione dei danni attesi. Fra le metodologie di intervento attualmente in uso spesso è preferibile agire sulla vulnerabilità. Ad esempio, nel caso del rischio idraulico, arginature dei fiumi e opere di drenaggio rappresentano interventi diretti di manutenzione delle infrastrutture antropiche e delle forme del territorio, mentre l’adozione delle più moderne tecniche costruttive antisismiche nell’edilizia storica e in quella di nuova edificazione è esempio di pratiche consapevoli di gestione del costruito per ridurne la suscettibilità al danno da eventi sismici. In altri casi è invece più economico e fattibile agire sull’esposizione, mediante dislocazione e ricollocazione degli elementi a rischio laddove possibile, ed evacuazione della popolazione a rischio, finanche allo spostamento permanente degli insediamenti e delle aree residenziali e produttive

I fattori di pericolosità, vulnerabilità ed esposizione spesso presentano problemi di parametrizzazione in quanto sono dipendenti da numerose variabili. In tal caso si può ricorrere a sintesi parziali delle informazioni quali ad esempio il rischio specifico (Rs ) ed il danno potenziale (D).

Il rischio specifico è il grado di perdita atteso quale conseguenza di un particolare fenomeno naturale e viene espresso come:

(Eq. B)

dove H e V sono la pericolosità e la vulnerabilità appena descritte.

Il danno potenziale indica l’entità presumibile delle perdite intese sia come danni materiali agli edifici, ai servizi e al sistema produttivo sia come perdite di vite umane. Tale parametro è il risultato della seguente equazione:

(Eq. C)

dove V è la vulnerabilità in funzione dell’intensità e dell’esposizione e W indica il valore economico cioè il valore o numero di unità esposte relative ad ognuno degli elementi a rischio in una data area (Canuti & Casagli 1996; Canuti et al., 1999).

Il territorio italiano è un’area geologicamente attiva; l’assetto fisiografico e geologico della regione deriva da complessi eventi geodinamici per la maggior parte riconducibili all’orogenesi alpino-himalaiana che ha dato vita all’omonima catena. Come ben noto dall’ampia letteratura di riferimento cui si rimanda per brevità della trattazione, tale orogenesi si è manifestata all’inizio del Cretaceo (~100 Ma) e rappresenta l’inizio di una complessa geotettonica da cui deriva il peculiare assetto geologico del territorio italiano, ancora oggi in continua modificazione, con fenomeni profondi e di superficie che ne determinano l’elevato rischio geologico.

Tale tipo di rischio viene valutato in base ai terremoti storicamente avvenuti nell’area e all’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto.

La sismicità della penisola italiana è dovuta alle spinte compressive che si sviluppano nella zona di convergenza tra la placca africana e quella euroasiatica. È per questo motivo che le scosse di maggior intensità si concentrano nella parte centro-meridionale della penisola, come Sicilia e Calabria e in alcune aree settentrionali come Friuli e Liguria occidentale.

Nonostante le conoscenze raggiunte nel campo della geofisica che hanno aiutato a stilare le carte della pericolosità sismica italiana (Figura 10 §2.3), i danni causati dai terremoti rimangono ingenti ed eccessivi, soprattutto se messi in relazione con l’intensità dell’evento o se confrontati con i danni registrati in altri paesi come Giappone e California.

Durante un terremoto il terreno si muove sia orizzontalmente sia verticalmente, tale tipo di movimento fa scuotere gli edifici che subiscono danni in base al grado di deformazione che possono sostenere e alla durata dello scuotimento.

In questa tipologia di rischio, la vulnerabilità descritta con l’Eq. A corrisponde alla propensione della struttura a subire un danno di un determinato livello a fronte di un evento sismico di data intensità.

Tale parametro è stato calcolato su tutto il territorio grazie ai censimenti sulle abitazioni che hanno permesso, per mezzo di metodi statistici, di stilare una carta italiana in cui fossero mostrate le aree con le abitazioni più a rischio (Figura 1).

Figura 1: Mappa della distribuzione in percentuale delle abitazioni appartenenti alla classe di vulnerabilità più elevata (A) della scala MSK in Italia (fonte: Dipartimento di Protezione Civile, 2008).

A dispetto dell’attuale conoscenza del rischio sismico in Italia, il bilancio degli ultimi terremoti in termini di crolli, dissesti strutturali, danni alle infrastrutture e non ultimo fatalità conferma la debolezza di un sistema caratterizzato da una non completa, quando addirittura assente, sistematica attività di prevenzione e mitigazione del rischio sismico, che trova il suo retroterra anche nella non piena e diffusa consapevolezza del rischio, in altre parole quella “cultura del rischio” che, se capillare e distribuita ai vari livelli della società civile, potrebbe aiutare a ridurre l’esposizione rischio degli elementi esposti.

Sono un esempio di quanto appena detto i recenti eventi sismici occorsi in Emilia Romagna nelle date del 20/05/2012 e del 29/05/2012. L’evento più forte della sequenza sismica di Modena-Ferrara è stato quello delle ore 04:03, di magnitudo Richter (Ml) 5.9 con epicentro entro 10 km dal comune di Finale Emilia con profondità di 6.3 km (INGV, 2012).

Mentre la seconda scossa è è avvenuta alle ore 09.00 con profondità 10,2 km, magnitudo pari a 5.8 ed epicentro localizzato tra i comuni di Camposanto, Cavezzo, Medolla, Mirandola, San Felice sul Panaro, San Possidonio, San Prospero e di altri al confine tra le provincie di Modena e Mantova, (Comunicato dell’INGV 29 maggio ore 16:00).

Detti eventi purtroppo sono ulteriore testimonianza della poca sicurezza delle abitazioni e dei centri storici in molte regioni d’Italia, oltre che di una scarsa informazione a livello della cittadinanza, spesso ignara del rischio sismico dell’area in cui risiede.

Con riferimento agli eventi sismici del maggio scorso, un’analisi della carta della sismicità (Figura 2) e la ricostruzione della sequenza storica dei terremoti che hanno interessato l’area emiliana (Tabella 1.1) consentono di riconoscere una sensibile suscettibilità sismica nella zona di Mirandola e, più in generale, confermano che gli strumenti della conoscenza non sono sufficienti se non vengono tradotti in azioni dirette sul territorio e sugli elementi a rischio.

Figura 2: Mappa della pericolosità sismica dell’area interessata dai terremoti di maggio del corrente anno (fonte: comunicato dell’INGV; APPENDICE A).

Tabella 1.1: Tabella riassuntiva degli eventi sismici più significativi (MI >4.0) nell’area emiliana dal 1340 ad oggi.

Nonostante la comunità scientifica fosse a conoscenza della sismicità locale e dei potenziali rischi associati i danni e gli effetti occorsi nell’ultimo terremoto sembrerebbero suggerire una assente o non completa messa in sicurezza preventiva degli elementi esposti al rischio.

Alla prevenzione deve tuttavia coniugarsi una coordinata e tempestiva attività di monitoraggio prima, durante e dopo un sisma, quale quella svolta dall’INGV, ente italiano di ricerca sui fenomeni Geofisici e Vulcanologici, incaricato della gestione delle reti nazionali di monitoraggio per i fenomeni sismici e vulcanici. Le ricadute sono molteplici, non ultima una costante comunicazione alle autorità locali e, conseguentemente, alla popolazione durante le fasi emergenziali a fini di salvaguardia pubblica e dell’incolumità degli operatori; si tratta di relazioni redatte giornalmente dall’INGV in occasione dei terremoti occorsi in Emilia così da tenere aggiornati in particolar modo i cittadini interessati sugli sviluppi scientifici effettuati durante le prime ore.

Un esempio di questo tipo di documento redatto dall’INGV è riportato nell’APPENDICE A (Comunicato 20 maggio 2012), dal quale è possibile comprendere il meccanismo focale della scossa principale con gli assestamenti tellurici successivi.

Per rischio vulcanico si intende il valore di perdite atteso al verificarsi di un’eruzione vulcanica o, più in generale, ad attività connesse a dinamiche di espansione/contrazione di camere magmatiche.

In Italia l’uso del terreno adiacente ai vulcani non ha purtroppo tenuto conto dell’esposizione dei beni e delle persone a questo tipo rischio, sebbene occorra tener conto che non tutte le aree vulcaniche sono ad alto rischio.

La Protezione Civile per semplificare l’assegnazione del livello di rischio nelle aree vulcaniche adotta una classificazione basata sul tempo trascorso dall’ultima eruzione. Con questo tipo di parametro si classificano:

  • Vulcani estinti, se l’ultima eruzione risale a più di 10.000 anni fa (es. Salina, Amiata, Vulsini, Cimino etc.)
  • Vulcani quiescenti, se l’ultima eruzione è entro i 10.000 anni
  • Vulcani attivi, se hanno eruttato negli ultimi anni
  • In conformità a questa suddivisione in Italia si possono riconoscere due vulcani attivi, Etna e Stromboli, e molti vulcani quiescenti quali Vesuvio (ultima eruzione

1944), Pantelleria (1891), Vulcano (1890), Isola Ferdinandea (1831), Campi Flegrei (1538), Ischia (1302) e l’isola di Lipari (VI-VII sec d.C.).

Figura 3: Mappa dei vulcani olocenici presenti nel territorio dell’Italia meridionale. (fonte: INGV, s.d.)

Le eruzioni vulcaniche si caratterizzano in base a vari parametri, uno dei quali è l’Indice di Esplosività Vulcanica (IEV; in inglese Volcanic Explosivity Index – VEI; Newhall et al., 1982). Questo tipo di classificazione definisce un’eruzione in base a differenti caratteristiche, tra le quali la descrizione qualitativa dell’evento, secondo cui un’eruzione può essere effusiva, esplosiva, parossistica etc. Ad esempio, una tipica eruzione effusiva è quella hawaiana visibile anche durante le eruzioni del

corpo vulcanico dell’Etna, che spesso si manifesta con la fuoriuscita e la propagazione di una lenta e prevedibile scia di lava.

Al gruppo delle eruzioni effusive appartiene anche quella di tipo stromboliano, che si distingue dalla precedente in base al volume di materiale espulso.

Nel primo caso il volume di materiale emesso è , la <104 m3, mentre nel secondo caso può raggiungere anche i 105 m3.

Valori maggiori di IEV nell’intervallo 2-3 sono tipicamente associati a vulcani esplosivi carichi di energia meccanica, provocata da un’alta concentrazione di gas volatili, che portano la colonna di ceneri ad altezze fino a circa 15 km.

Le eruzioni più catastrofiche invece sono di tipo da subpliniano a pliniano e ultrapliniano, con colonne di ceneri maggiori di 25 km e con più di 1012 m3 di materiale eruttato. Da considerare che l’eruzione del Vesuvio con maggior probabilità di accadimento è di tipo subpliniano caratterizzata dall’espulsione nella stratosfera di una consistente quantità di ceneri che può comportare anche cambiamenti metereologici più o meno perduranti nel tempo.

Figura 4: Schema riassuntivo dell’IEV (VEI) (fonte: http://www.neiu.edu).).

Un elemento critico è rappresentato dagli eventi associati alle eruzioni vulcaniche quali ad esempio:

  • colate di lava; flussi di materiale magmatico misto a gas che scende alle pendici del vulcano;
  • bombe e blocchi: frammenti di lava scagliati con forza fuori dalla bocca del vulcano durante un’eruzione esplosiva;
  • colate piroclastiche: nubi di particelle solide come pomici, scorie, litici etc. disperse in una fase gassosa composta per la maggior parte da vapore acqueo CO2 e CO che si sviluppano per il collasso della colonna eruttiva o di un duomo di lava;
  • emissioni di gas tossici;

 

  • lahar: colate di fango misto a prodotti piroclastici provocate dalla fusione di neve e ghiaccio durante l’eruzione o dall’inondazione provocata dal lago della caldera o ancora dalle piogge vulcaniche che bagnando i pendii pieni di ceneri creano delle valanghe di fango.

A questi si aggiungono anche: frane vulcaniche; maremoti; terremoti e incendi, sebbene i fenomeni più pericolosi e più frequenti siano le colate piroclastiche e le colate di fango.

In questo ambito l’equazione del rischio è funzione di un parametro importante per calcolare il valore della pericolosità, ovvero l’intensità (I, Intensity), espressa in kg/s della massa di magma emessa per unità di tempo. ed è il parametro chiave per calcolare il valore della pericolosità.

Purtroppo per questa tipologia di evento la vulnerabilità è sempre piuttosto elevata, da cui consegue che il rischio assume un valore basso solo nei casi in cui lo siano anche pericolosità (ex. vulcano spento) e/o esposizione (ex. zone non abitate).

La conformazione geomorfologica delle aree alluvionali e vallive rispetto alla distribuzione orografica ed i fattori ambientali che tipicamente facilitano lo sviluppo degli insediamenti antropici hanno, nei secoli, condizionato la distribuzione della densità di popolazione sul territorio italiano, inducendo lo sviluppo urbano nelle aree periodicamente alluvionabili rendendo indispensabili gli studi per la valutazione delle piene e la realizzazione di opere idrauliche.

La stima delle piene si effettua grazie allo studio delle misurazioni pluviometriche spazializzate, del suolo, della litologia e dell’idrografia mediante la formula razionale:

 

(Eq. D)

 

dove Q è la portata, C è il coefficiente di ruscellamento, I è l’intensità di pioggia espressa in mm/h e A è l’area del bacino idrografico.

È possibile inoltre valutare se la quantità d’acqua prevista durante la piena passa in tutte le sezioni dell’alveo in modo da agire su di esse con un’eventuale laminazione della piena così da far transitare la stessa quantità d’acqua in maniera più lenta e quindi meno rischiosa.

Il rischio idraulico è distinguibile secondo le seguenti tipologie:

  • Rischio esondazione, cioè la fuoriuscita di acque dalle reti di drenaggio naturali o artificiali;
  • Rischio da inquinamento, presenza nella corrente liquida e/o nel materiale d’alveo di carichi inquinanti a volte in conseguenza di esondazioni;
  • Rischio da dinamica d’alveo, cicli di erosione e deposizione dettati dalle interazioni tra la corrente liquida e il materiale solido.

Tra questi il rischio che più probabile e più frequente è quello provocato dalle dinamiche che agiscono in alveo, in ragione delle numerose variabili che ad esso concorrono. Le variazioni dell’alveo possono interessare il fondo, le sponde o la completa morfologia del letto. Per quel che riguarda il fondo, l’azione delle acque può portare sia ad incisione sia a sedimentazione in base all’energia che l’acqua acquista con la pendenza. Il processo di incisione provoca tipicamente instabilità delle sponde che spesso vengono erose al piede causando crolli e di conseguenza un aumento del trasporto solido, oltre a una possibile erosione regressiva degli affluenti che può andare ad intaccare strutture antropiche adiacenti al fiume, o perfino l’abbassamento dei livelli freatici provocando la morte della vegetazione e quindi una diminuzione delle forze stabilizzanti degli argini. La sedimentazione invece è la causa di un maggior apporto solido all’interno dell’alveo e quindi della riduzione della sezione idraulica che è il motivo scatenante della maggior parte delle esondazioni come avviene ad esempio nei casi di variazione morfologica dell’alveo per restringimento dei canali.

Le variazioni laterali dovute all’erosione delle sponde provocano rischi sia a breve che a lungo termine in quanto la diretta erosione delle sponde può provocare sia un’immediata perdita di terreni coltivabili o danni alle strutture adiacenti sia una sedimentazione a valle più pronunciata ricollegandosi ai danni provocati da una maggior sedimentazione.

In base a questi tipi di variazioni all’interno dell’alveo, ai tipi di erosione ed al tratto del corso d’acqua preso in considerazione, possono essere scelte varie tipologie di opere idrauliche, distinguendole tra quelle più appropriate al tratto montano e quelle più appropriate al tratto medio vallivo.

Alla prima tipologia appartengono le briglie e le soglie, utili per diminuire la pendenza, il rivestimento di canali per evitare l’erosione del fondo e le piazze di deposito per diminuire la velocità della corrente e di conseguenza il trasporto solido. Sul tratto medio vallivo invece sono spesso applicati pennelli in modo da modificare i canali di flusso e quindi le velocità nei cari punti dell’alveo.

Altri interventi di tipo più radicale sono la costruzione di argini a letto incassato o pensile, argini Hab® (formati da grossi palloni che in caso di piena si gonfiano alzando un pannello che tende ad alzare l’altezza dell’argine), sistema a vasche Noah simili alle casse di espansione che servono per ridurre la portata e limitare i danni. In particolare quest’ultime possono essere di due tipi: in linea se vengono costruite sull’alveo, non in linea se sono costruite accanto al fiume e collegate ad esso grazie a traverse fluviali.

Le caratteristiche geografiche e geomorfologiche che hanno favorito sin da epoca remota l’insediamento antropico nella pianura alluvionale dell’Arno hanno esposto nei secoli le popolazioni a eventi alluvionali anche particolarmente severi, il cui impatto è stato spesso conseguenza delle trasformazioni apportate all’alveo fluviale e a un maggior grado di esposizione degli elementi a rischio, in conseguenza anche dell’aumento della densità di popolazione.

L’alluvione che nel novembre del 1966 ha colpito la città di Firenze oltre ad aver avuto un impatto locale rilevante ha contribuito a un’evoluzione dell’approccio da parte della società civile agli eventi meteorologici per così dire “straordinari”. D'altronde la grande risonanza mediatica che ha avuto l’evento del 1966 è dovuta al

ruolo centrale che Firenze ricopre a livello mondiale in materia di cultura e patrimonio storico-artistico e monumentale. L’alluvione fiorentina ha contribuito ad una maggiore consapevolezza a livello internazionale dei possibili effetti correlati alla severità di un evento idraulico.

Nell’APPENDICE B sono visibili le carte guida delle aree allagate basandosi sugli eventi alluvionali occorsi dal 1966 al 1999, dalle quali emerge ancor più chiaramente la genesi della pianura occupata dalla città.

Questa predisposizione della città di Firenze e del suo territorio alle alluvioni è deducibile, non solo da documenti di archivio, dalla cartografia storica e recente e dalla letteratura geologica, ma anche da osservazioni topografiche e toponomastiche e dalla memoria storica ancora documentata lungo le vie del centro storico fiorentino. Ad esempio accanto alle colonne della Chiesa di San Jacopo (quartiere Oltrarno) sono segnate con delle tacche le altezze che l’acqua ha raggiunto con specificato l’anno in cui è avvenuta l’inondazione. Proprio grazie a questa documentazione distribuita nel tessuto urbano è possibile stimare in modo speditivo l’altezza raggiunta dall’esondazione del 1966 (circa 4,5m misurata in via Giuseppe Verdi all’altezza di Santa Croce) che è ad oggi considerata la più severa del XX secolo.

L’alluvione non interessò solamente la città di Firenze ma anche tutto il bacino dell’Arno, sia a monte che a valle della città, come è possibile notare dalla Figura 6. Le precipitazioni più intense si sono sviluppate nel Casentino e nell’alto Valdarno dove le precipitazioni si sono mantenute al di sopra dei 200 mm, mentre nella stazione pluviometrica di Badia Agnano sono stati registrati 437 mm di pioggia, uno dei valori più elevati registrati in quell’evento.

Grazie a questi dati e ai rilievi manuali della sezione liquida e della pendenza del profilo è stato possibile applicare la Formula di Chezy:

(Eq. E)

dove Q è la portata, S è la pendenza misurata manualmente come il raggio idraulico (R) e la pendenza (p) mentre C è il coefficiente di scabrezza cioè un coefficiente dipendente dalla rugosità del fondo. Per l’evento del novembre 1966 C fu calcolato con la formula di Kutter:

C= 100/1+ (m/√R) (Eq. F)

Grazie a queste formule è stato possibile stimare che sotto le arcate di Ponte

Vecchio per evitare l’esondazione del fiume sarebbero dovuti passare tra i 4.000 ed i 4.200 m3/s, mentre la portata massima in grado all’epoca di attraversare tale sezione era pari a 2.500 m3/s.

Figura 5: Veduta di Firenze da Piazzale Michelangelo all’alba del 4 novembre 1966 . (fonte: AIQUA e EMMEVI)

Le precipitazioni in meno di 24 ore fecero cadere nel bacino dell’Arno circa

1900 mm, un valore ben superiore alle medie stagionali, considerando che nell’area fiorentina la precipitazione media annua è di circa 900 mm (De Chiara, 2003). Questo lo si può notare ancor più nel particolare nell’idrogramma di Nave a Rovezzano (Figura 7).

Successivamente a questo evento, (sulla base dei dati e delle annotazioni contenute nei documenti dell’Autorità di Bacino del Fiume Arno, sono state prese misure di prevenzione agendo sulle arcate dei ponti Santa Trinità e Ponte Vecchio. In quest’ultimo caso sono state abbassate le platee in modo da ampliare la sezione fina ad una portata di circa 3.300 m3/s.

Sono state alzate le spallette nei tratti dell’alveo fiorentino più critici e sono state costruite casse d’espansione su alcuni affluenti dell’Arno, mentre le opere sul ramo principale sono ancora in via di progettazione e appalto.

Inoltre l’evento alluvionale del 1966 è stato uno dei precursori per la nascita dell’Autorità di bacino del fiume Arno nato nel 1990 con il compito di sviluppare i piani di bacino articolati per stralci. Il primo stralcio redatto dal Segretario generale dell’Autorità di Bacino del fiume Serchio Raffaello Nardi, non fu attuato in quanto prevedeva troppi vincoli per il territorio e risultò al tempo troppo dispendioso.

In un secondo momento il Prof. Giovanni Menduni successore di Nardi ha provveduto all’approvazione del PAI (Piano Assetto Idrogeologico) che sostanzialmente riprendeva in alcune sue parti le proposte di Nardi tranne che per la differenza sostanziale nell’aspetto economico in quanto quest’ultimo piano ha ottimizzato le risorse economiche aiutando l’accordo tra Stato e Regione per il finanziamento degli interventi in ordine di priorità.

Un ulteriore intervento rilevante è stato la messa in opera dell’invaso del Bilancino che oltre a fornire una maggior portata all’acquedotto fiorentino sostenendo il minimo deflusso vitale del fiume opera sulla mitigazione delle piene del Fiume Sieve sfavorendo le piene dell’Arno.

Figura 6: Mappa delle aree inondate nel bacino dell’Arno durante l’evento alluvionale del 1966 (fonte: Autorità di Bacino, 2008).

Figura 7: Idrogrammi del Bacino dell’Arno nei giorni dal 4 al 5 novembre 1966 (fonte: Autorità di Bacino)

Per rischio idrogeologico si intende il rischio connesso all’instabilità dei versanti dovuta alla conformazione geologica e geomorfologica del territorio ed aggravata da eventi metereologici di alta intensità.

Per quel che riguarda il territorio italiano, il dissesto idrogeologico è un problema di grande rilevanza, sul quale esercita un’influenza non trascurabile anche l’incuria dell’uomo in aggiunta a fattori naturali quali l’orografia ancora giovane e i rilievi in via di sollevamento.

Tali predisposizioni sono le condizioni ideali per l’innesco di: movimenti in massa (movimento di materiale causato dalla gravità); frane (movimento di roccia, detrito o terra lungo un versante); sprofondamenti; subsidenze (abbassamento generalizzato o differenziale del terreno); trasporti di massa (innescato dalle acque di ruscellamento).

Per la classificazione dei suddetti movimenti vengono seguite le indicazioni del Gruppo di Lavoro per l’Inventario Mondiale delle Frane (WP/WLI) che ha apportato le ultime modifiche in questo ambito negli anni 1993-1994. Seguendo tali criteri la descrizione dell’attività si suddivide:

a) stato di attività, tramite l’analisi della durata del movimento si riesce a valutare l’evoluzione del fenomeno potendo distinguere tra vari tipi di attività, basandosi su indicatori geomorfologici;

Figura 8: Frane di ribaltamento con diversi stati di attività.

1) attiva, 2) sospesa, 3) riattivata, 5) quiescente, 6) naturalmente sensibilizzata, 7) artificialmente sensibilizzata, 8) relitta (Cruden & Varnes, 1994).

 

b) distribuzione di attività, descrive le aree di frana basandosi sul movimento permettendo di comprendere il futuro sviluppo spaziale.

 

Figura 9: Frane con diversa distribuzione di attività. 1.In avanzamento; 2.retrogressiva; 3.multi- direzionale; 4.in diminuzione; 5.confinata; 7.in allargamento. La sezione 2 di ogni esempio mostra come appare il versante dopo il movimento sulla superficie di rottura (Cruden & Varnes, 1994)..

c) stile di attività, individua i vari tipi di movimento che compongono una frana raggruppandoli sotto uno stesso insieme che definisce la frana: complessa, composita, successiva, singola o multipla.

La classificazione in questione è nata con l’obiettivo di semplificare e uniformare le definizioni in materia di movimenti di massa ma l’intento per cui è stata redatta non è stato in tutti i casi assolto. Infatti la catalogazione risulta non così agevole per fenomeni cosiddetti “complessi” ovvero frane caratterizzate da un movimento risultante dalla combinazione di due o più tipologie di frane. In questi termini Cruden & Varnes (1994) hanno suggerito di evitare l’uso del termine “complessa” e di classificare i fenomeni franosi costituiti da un’associazione di tipologie di movimento con una coppia di termini, uno riferito al primo movimento in scala temporale ed uno al secondo.

Seguendo invece un altro tipo di approccio le frane si distinguono in base al tipo di movimento (di crollo, ribaltamento, scivolamento, espansione e colamento), al tipo di materiale (roccia o terreno sciolto), al contenuto in acqua, alla velocità, alla distanza di propagazione ed allo stato di attività sopra citato. In base a questi parametri sono state elaborate varie classificazioni, fra le quali le più usate sono quelle di: Varnes (1978); Cruden & Varnes (1996) maggiormente utilizzata per le frane e, Hungr et al. (2001in particolare per la classificazione delle colate.

Figura 10: Tabella di confronto tra la classificazione Hungr et al. (2001) e Varnes (1978). (fonte: Prof. Nicola Casagli, dispense del corso di Geologia Applicata e Legislazione)

L’innesco dei suddetti tipi di movimento avviene quando:

(Eq. G)

dove F è chiamato Fattore sicurezza.

Tra le forze destabilizzanti si distinguono: quelle che aumentano la forza di taglio sul versante e quelle che riducono la resistenza al taglio del materiale. Tra le prime si annoverano l’aumento artificiale della pendenza del pendio tramite riporto, la rimozione del sostegno laterale in maniera naturale o artificiale, i sovraccarichi sul pendio come accumulo di neve, ghiaccio etc., mentre alle seconde appartengono le forze che provocano bassi valori di resistenza al taglio, i fattori che riducono gli sforzi effettivi e i fattori che riducono i parametri dai quali dipende la resistenza al taglio (Fell et al, 2008).

Per quel che riguarda invece le forze stabilizzanti, esse possono derivare da azioni sul territorio volte a creare condizioni di stabilità, come ad esempio le attività di rimboschimento che mirano a limitare l’erosione e il ruscellamento e a stabilizzare il versante.

Purtroppo spesso questo tipo di interventi di prevenzione e mitigazione del rischio non vengono attuati nei tempi e con le metodologie giuste. In proposito l’evento del Vajont del 9 ottobre 1963 è un esempio dimostrativo degli effetti di una scarsa o totale azione di prevenzione.

 

Gli strumenti di pianificazione e tutela rivestono un ruolo fondamentale nelle politiche di difesa e conservazione dell’habitat in quanto grazie ad esempio ai regimi autorizzatori è possibile apportare un controllo preventivo alle attività e sono inoltre funzionali per far conoscere preventivamente alle amministrazioni locali gli effetti che le attività provocheranno sull’ambiente.

I controlli previsti da tali regimi possono essere effettuati da tutte le forze dell'ordine e dai vari enti autorizzati come l'Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale Regione Toscana (ARPAT). Ciononostante, nell’ordinamento italiano si riscontra l’assenza di strumenti che permettano di verificare l'effettività dei controlli. Questi ultimi spesso sono percepiti, sia in ambito pubblico che privato, come una voce di spesa onerosa e non come una risorsa. Ne consegue quindi una disomogeneità a livello comunitario delle politiche di controllo, che spesso si abbina a una riduzione, finanche a una eliminazione di queste voci di spesa, con ripercussioni non trascurabili per la tutela dell’ambiente..

La legislazione italiana negli anni ha introdotto strumenti specifici per la sorveglianza ambientale quali il VIA (Valutazione Impatto Ambientale) e il VAS

(Valutazione Ambientale Strategica). Si tratta di procedure tra loro complementari in quanto sono riferite a realtà diverse, ovvero il VIA riguarda le grandi opere edilizie, le centrali nucleari, le raffinerie, le grandi centrali termoelettriche, etc. mentre il VAS ha per oggetto atti generali, cioè le ragioni pubbliche per la tutela dell’ambiente. Entrambe sono regolate dal Codice dell'Ambiente del 2006 (Decreto legislativo

03.04.2006 n. 152) che ha come intento quello di semplificare e unificare la normativa ambientale per renderla più leggibile e meno ripetitiva , come enunciato all’art. 2, comma 2.

Nonostante tale proposito, il Codice dell’Ambiente trova un suo limite nell’azione di coordinamento con le norme non incluse che legiferano in materia di difesa del suolo, inquinamento idrico, tutela delle acque e desertificazione.

I più importanti strumenti di tutela in materia ambientale sono:

 

1) La Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) è uno strumento autorizzatorio di supporto decisionale tecnico-amministrativo finalizzato ad effettuare un controllo preventivo sull'impatto ambientale di grandi opere. Questo procedimento è delineato dalla Direttiva 85/337/CEE (aggiornata dalle Direttive

97/11/CEE e 2003/35/CE) che in Italia è stata introdotta con la legge dell’8 Luglio

 

1986 n. 349 e con i successivi decreti ne è stato regolato il funzionamento. Alla procedura di VIA sono sottoposti i progetti pubblici e privati che possono avere un impatto ambientale rilevante come raffinerie, centrali termiche, acciaierie, impianti chimici, dighe etc.

L’autorità competente a livello nazionale è il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare, affiancato dal Ministro dei Beni e le Attività Culturali per gli aspetti archeologici e paesaggistici.

La procedura si svolge in varie fasi, la prima delle quali consiste nella presentazione, da parte del soggetto costruttore alle autorità competenti, di un progetto con allegato lo Studio di Impatto Ambientale e contestuale pubblicazione attraverso i principali mezzi di informazione in modo da consentire a qualsiasi soggetto interessato di esprimere la propria opinione entro un termine di 30 giorni dalla pubblicazione. Il procedimento si conclude con l’emanazione di un provvedimento contenente prescrizioni e raccomandazioni delle quali il proponente deve tenere conto nelle successive fasi di costruzioni. Compito dell’amministrazione è controllare che vengano seguite le regole prescritte.

La VIA è pertanto uno strumento finalizzato a migliorare la trasparenza nelle decisioni amministrative, realizzare la sostenibilità verificando che il progetto abbia il minor impatto ambientale possibile, prevenire il danno ambientale, favorire la partecipazione dei cittadini al procedimento e proteggere la qualità della vita.

2) La Valutazione Ambientale Strategica (VAS) è un processo sistematico di valutazione delle conseguenze ambientali finalizzato ad accertare che quest'ultime vengano incluse in modo completo ed appropriato durante la fase decisionale.

La VAS diventa quindi un elemento costruttivo, gestionale e di monitoraggio, che consta di varie fasi:

o elaborazione dei dati di riferimento, degli obiettivi, delle finalità e delle priorità;

o bozza di proposta di sviluppo con l’individuazione delle varie alternative con allegata la valutazione ambientale;

o integrazione dei risultati della valutazione nella decisione definitiva in merito ai piani ed ai programmi.

Le suddette fasi di cui è composta la VAS devono essere pianificate attraverso una chiara definizione degli obiettivi, la costruzione di un gruppo di lavoro interdisciplinare e la garanzia di un’intensa collaborazione tra le autorità ambientali.

3) L’ Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) autorizza la messa in attività di un impianto o di parte di esso solo sotto determinate condizioni che devono garantire l'adempimento della direttiva comunitaria 2008/1/CE (conosciuta anche come “direttiva IPPC”) del Parlamento e del Consiglio Europeo del 15 gennaio 2008 sulla prevenzione e riduzione dell'inquinamento.

4) Il danno ambientale è uno strumento civilistico di tutela residuale in quanto esso si attua nel momento in cui il pericolo è già stato tramutato in danno in altre parole quando la tutela preventivamente attuata non è risultata essere sufficiente. Nel caso in cui vi siano attività che mettano a rischio l’ambiente l'amministrazione chiede al soggetto responsabile di rimuovere il pericolo e ripristinare ove possibile la situazione iniziale. Se il pericolo invece di essere rimosso dovesse trasformarsi in danno, l’amministrazione locale può costituirsi parte civile in un processo penale.

5) Le ordinanze di necessità e urgenza sono disciplinate solo in parte dal Codice dell'Ambiente. Esse si caratterizzano per il fatto di essere utilizzate per fronteggiare situazioni straordinarie, e per questo motivo sono provvedimenti amministrativi atipici. Questo strumento è regolato da singole norme di settore, l'ordinanza infatti può derogare alle leggi ed avere un contenuto atipico che deve essere reso noto ai destinatari ed ha una durata determinata nel tempo. I requisiti di questa tipologia di ordinanze sono l'inderogabilità rispetto alle norme costituzionali e comunitarie e l’ adeguatezza alla situazione cui si applicano, da cui può derivare la derogabilità dalle leggi ordinarie solo per lo stretto necessario.

6) Le norme tecniche si differenziano dalle giuridiche perché hanno un contenuto tecnico-scientifico che descrive la messa in opera di un attività. Sono stabilite nella loro maggioranza a livello comunitario e l'ordinamento interno in larga parte le recepisce con ambiti di discrezionalità contenendole nei regolamenti. Le norme sono contenute nei trattati internazionali o sono elaborate da strutture tecniche del ministero affiancato ad agenzie del settore come ad esempio l’APAT (Agenzia Protezione Ambiente e per i servizi Tecnici) nel diritto comunitario, nella legislazione statale e regionale, regolano la tutela dell’ambiente ed hanno caratteristiche di:

  • Generalità – sta ad indicare che la norma giuridica non si rivolge ad uno o più soggetti determinati ma ad una pluralità indeterminata di soggetti;
  • Astrattezza per astrattezza si indica una norma che non si riferisce a singole ad una classe di fattispecie ed è, quindi, applicabile ad una pluralità indeterminata;
  • Obbligatorietà – per obbligatorietà si intende che la norma deve essere rispettata obbligatoriamente.

L'astrattezza e la generalità di una norma sono strettamente collegate tra di loro e rispondono ad una triplice esigenza: contenere tutte le possibili combinazioni e varianti che possono verificarsi nella realtà, assicurare uniformità di disciplina e parità di trattamento.

Un ultimo strumento a disposizione dell'ordinamento sono le sanzioni. Esse si dividono in sanzioni amministrative e penali a seconda della gravità del danno arrecato. Le sanzioni amministrative sono irrogate dall'amministrazione competente ed il soggetto ricevente può pagarle o ricorrere al giudice amministrativo. Le sanzioni penali invece vengono assegnate dal giudice dopo un processo dove vieni formulata un imputazione.

Oltre agli strumenti di tutela sopra descritti rivestono un ruolo molto importante gli strumenti di pianificazione gestiti per lo più dalla Protezione Civile.

La valle del Vajont ha una conformazione stretta e lunga definita durante il Pleistocene dal ritiro dei ghiacciai wurmiani che imposero un’erosione di tipo torrentizio. Per la sua particolare genesi, la morfologia dell’intera area risultò essere la più idonea per la realizzazione di un réservoir idrico di approvvigionamento dei comuni limitrofi come da progetto proposto dalla Società Adriatica Di Elettricità (SADE).

A testimonianza di come la forzante antropica possa sommarsi ai fattori naturali di rischio idrogeologico, all’innesco della frana del Vajont contribuì in maniera significativa il disinteresse e la poca attenzione alle avvisaglie geologiche emerse negli anni precedenti all’evento catastrofico.

 

Anno

Periodo

Avvenimento

Cause e/o Conseguenze

 

 

1928

 

Ingegner C. Semenza incaricato del

progetto.

Geologo G. Dal Piaz incaricato per le relazioni geologiche.

 

 

 

1957

 

Variante del progetto per aumentare l’invaso fino da 58×106 m3 a 150×106 m3 elevando la struttura fino a 265m.

La valutazione del geologo Giorgio Dal Piaz diceva:…g il vecchio progetto mi pareva audace;

questo nuovo mi fa tremare le vene ai polsi!....

 

 

1959

Marzo

Frana alla diga di Pontesei, 10 km da quella in costruzione.

Crolla la diga del Malpasset vicino la cittadina di Fréjus

Si effettuano nuovi studi sull’assetto geologico dell’area visto che i precedenti non erano abbastanza esaustivi data anche la scarsa normativa presente al tempo in materia

Estate

I geologi F .Giudici e E. Semenza

riconoscono una paleofrana grazie agli

studi geologici effettuati.

1. Riconoscono la superficie di scivolamento come un contatto geologico anomalo, il piede di

tale superficie era stato rimesso a nudo dall’azione erosiva del torrente Vajont.

2. Riconoscono una frana preistorica sull’altro lato della valle (Colle Isolato).

Novembre-Ottobre

Indagine Sismiche che non danno gli

stessi risultati delle indagini effettuate

dai geologi

Perché una frana di questa estensione può muoversi senza scompaginarsi molto interamente

quindi le indagini sismiche non risultano le più adatte in questi casi.

19

 

60

Giugno-Ottobre

1° fase d’invaso fino a 635m

Si verificano varie frane sul versante.

Novembre

 

Comparsa della fessura perimetrale continua per 2 km che era l’unico dato mancante ai geologi F.

GiudicieE. Semenza.

 

 

1961

Gennaio

Costruzione della galleria bypass

Con la funzione di tenere collegati i due bacini che si sarebbero andati a formare nel caso in cui la frana fosse crollata, soprattutto alla luce degli ultimi dati emersi.

 

Luglio

V iene incaricato dalla SADE il prof.

Ghetti dell’Università di Pavia ad effettuare prove su dei modellini per valutare le possibili conseguenze del collasso del corpo di frana.

Il prof. Ghetti essendo un professore di idraulica non aveva le conoscenze geologiche adeguate

così parti da dei presupposti errati:

•Diede per appurato che la frana sarebbe crollata n due eventi distinti.

•Per riprodurre il versante del Monte Toc utilizzò la ghiaia del Piave che manca del tutto di coesione.

Agosto

Quattro piezometri vengono posizionati sul versante del Monte Toc

Per valutare la profondità del piano di scivolamento.

 

 

1962

Luglio

Consegna relazione del Prof. Ghetti

Secondo il modellino solo se l’acqua nel serbatoio al momento del distacco si dovesse trovare a

quota massima 700 m s.l.m. l’onda provocata sarebbe contenibile, in caso contrario l’onda sarebbe risultata avere un ampiezza ben più grande provocando un pericoloso dilavamento dei versanti ed una tracimazione della diga che avrebbe portato l’acqua fino a Longarone.

Novembre-Dicembre

2° prova d’invaso con successivo svaso

rapido

 

 

 

1963

Aprile

3° prova d’invaso fino a 710m nonostante le raccomandazioni del prof. Ghetti

 

9 Ottobre

Innesco della frana

Sul versante Nord del Monte Toc (che in friulano, contrazione di “patoc”, significa “marcio”) si stacco il corpo di frana con un volume stimato pari a 270×106 m3 provocando un onda intorno ai

200m.

Gli studi successivi al 1963 su questo evento presero piede in tutto il modo data l’eccezionalità geologica del fenomeno e la grande risonanza mediatica di quegli anni. Henderson e Patton con il loro studio nel 1985 chiarirono molti aspetti dell’avvenimento:

 

1. Riconobbero le cause dell’innesco nella concomitanza di due fattori, le intense precipitazioni avvenute nel periodo autunnale del 1963 e lo svaso rapido del lago.

2. Attraverso gli studi di Charles e Soares, 1984 riguardanti l’invaso e quelli di Morganstern, 1963 riguardanti lo svaso rapido chiarirono che: durante l’invaso sul versate agivano due tipi di forze, quella dell’acqua che apportavano sostegno e quelle della pressione interstiziale che destabilizzavano ulteriormente il terreno. Nei momenti di svaso rapido invece venivano annullate le pressioni di confinamento stabilizzanti.

3. Tramite il Modello di Anderson riuscirono a spiegare l’eccezionale velocità dell’evento in quanto, a differenza dalle tipiche riattivazioni di frana che risultano piuttosto lente, la frana del Monte Toc acquisì una velocità di 20-30 m/s. Secondo il modello sopracitato queste velocità potevano avere luogo solo con una perdita del 60% dell’attrito lungo la superficie di scivolamento che fu in seguito accertata da Tike e Hutchinson nel 1999. Quest’ultimi effettuarono delle prove di taglio torsionale ad alta velocità sulle argille del Vajont dimostrando la loro perdita di resistenza ad alta velocità, già intuita negli studi di Henderson e Pattern.

 

Lo studio di questo evento evidenzia il ruolo fondamentale della natura durante la messa in opera dei progetti antropici, mettendo in risalto l’importanza che il ruolo di ogni esperto del settore ricopre così da lavorare in team senza trascurare nessun fattore. Fondamentale è il rispetto delle leggi e delle autorizzazioni da parte dei soggetti interessati ed il coordinamento tra di esse, cose che nella maggior parte dei casi vengono trascurate pensando di aiutare l’economia senza recare danno alle persone o all’ambiente ed è proprio quest’evento appena descritto che dimostra l’inadeguatezza di questo comportamento (Paolini, 1999; Merlin, 2001); (ConvegnoInternazionale, La memoria come strumento di tutela, Longarone, 2003).

Figura 11: Veduta della valle del Vajont in cui è percepibile l’area di distacco della frana del 1963 (di modificata da Google Earth).

La zonazione dei comuni a rischio sismico rappresenta un’importante risultanza dell’attività conoscitiva e preventiva svolta in ambito di protezione civile ed è propedeutica a un’attività edilizia accorta e consapevole, specie nelle aree riconosciute ad elevata suscettibilità da eventi tellurici. Tale mappatura è strumento informativo per la popolazione, nella prospettiva di una efficace educazione al rischio

Anche la prevenzione per il rischio vulcanico è svolta come la precedente dall’INGV affiancata da altri Centri di Competenza quali: PLINIVS-Lupt (centro studio dell' Università degli studi di Napoli Federico II), Dst Unifi (Dipartimento scienze della terra Università degli Studi di Firenze), etc.

Tale attività si suddivide principalmente in due fasi:

  • Sorveglianza dei vulcani, tramite gli strumenti di monitoraggio che rilevano i parametri fisico-chimici per determinare lo stato di attività del corpo vulcanico sia lo studio degli affioramenti vulcanici e della letteratura che ne tratta in modo da poter valutare tutti i possibili scenari eruttivi futuri.
  • Prevenzione del rischio, sulla base dei possibili scenari eruttivi vengono redatti i piani d'emergenza che prevedono come agire in caso di eruzione anche se rimane sempre molto debole o in alcuni casi addirittura inesistente, da parte dei comuni interessati, l'attività di educazione ed informazione della popolazione.

Il Centro Funzionale Centrale per il Rischio Vulcanico (CFC-RV) è la struttura, all'interno della Protezione Civile, che si occupa principalmente dell'acquisizione, dell'elaborazione e della sintesi dei dati. Sulla base delle informazioni pervenute dai vari Centri di Competenza territoriali, il CFC-RV, emette con cadenza settimanale il Bollettino di vigilanza e criticità dei vulcani italiani, fatta eccezione per il vulcano di Stromboli che data la sua persistente attività ha il proprio Bollettino con cadenza giornaliera. Inoltre giornalmente il CFC-RV elabora la mappatura delle aree a rischio per la dispersione di ceneri delle eruzioni dell'Etna (Figura 12) sulla base di modelli matematici e stime delle direzione dei venti prodotte dal modello LAMI (Limited Area Model Italy, è un applicazione operativa di Cosmo (Consortium for Small-Scale Modelling), offre il principale modello numerico meteorologico internazionale). Grazie a questi dati, oltre a sorvegliare i vulcani nazionali, il sistema di allerta offre supporto alle decisioni prese da parte delle autorità competenti per i voli aerei in modo da evitare rotte poco sicure.

 

Figura 14: Mappa di previsione delle aree potenzialmente interessate da ricaduta di ceneri al suolo in caso di attività esplosiva dell'Etna inerenti al giorno 25/04/2010. (fonte: Sistema Nazionale di Allerta)

Per quel che riguarda il rischio idraulico il DPC si appoggia ai centri di competenza del CIMA (Centro Internazionale di Monitoraggio Ambientale) e del CETEMPS (Centro di Eccellenza di Telerilevamento e Modellistica numerica per la Previsione di eventi Severi), mentre per il rischio idrogeologico ai centri UNIFI-DST (Università degli Studi di Firenze Dipartimento Scienze della Terra), CAMILab (Centro di Competenza della Protezione Civile) e CNR-IRPI (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica).

Rispetto ai rischi precedentemente elencati le difficoltà sono differenti in quanto molti argini sono di “eredità storica”, per cui in molti casi permane l’incertezza sulle tecniche di costruzione e il tipo di materiale utilizzato. Inoltre agire su argini preesistenti è difficoltoso in quanto essi spesso sono il risultato di stratificazioni e hanno subito modifiche più o meno consistenti in tempi diversi, come esemplificato nel caso riportato in Figura 15. Gli interventi di ripristino e consolidamento potrebbero quindi non dare il risultato sperato.

 

Figura 15: Modifiche dal 1600 al 1933 dell'argine sinistro dell'Adige a Masi, Padova (Deppo, 2006).

Figura 16: Radar Meteorologico dell’aeroporto Amerigo Vespucci di Firenze.(www.nove.firenze.it).

Proprio per i suddetti motivi gli strumenti e le tecniche di prevenzione sono per lo più mirate alla comprensione dei fenomeni meteorologici estremi così da poter intervenire sul territorio in modo preventivo. Per raggiungere tali obiettivi vengono utilizzate varie tecniche di monitoraggio come ad esempio i radar meteorologici. Questi tipi di radar (Figura 16) sono in grado di rilevare i fenomeni atmosferici connessi alla condensazione dell'umidità presente in atmosfera, così da poterne studiare la velocità ed il moto e predirne le future posizioni nel modo più accurato possibile. Il sistema di Radar Nazionale è ancora in via di completamento. Attualmente sono attivi solo 8 dei 13 radar in possesso del DPC, ma la prospettiva è quella di disporre di una rete di 30 radar di cui 26 fissi e 4 mobili che permetteranno la totale copertura del territorio.

 

Figura 17: . mappa del radar meteo del giorno 06/07/2012 alle ore 13.25 sull'area della provincia di Bolzano. (http://www.provincia.bz.it)

I dati raccolti con i suddetti strumenti e con molti altri vengono rappresentati attraverso pluviogrammi che esprimono le cumulate di pioggia e in ietogrammi che riproducono le intensità di pioggia nel tempo in mm/h. Inoltre, grazie al lavoro dei Centri Funzionali Regionali e con la collaborazione dei Centri di Competenza che forniscono ulteriori dati ed informazioni ogni giorno vengono sviluppati i Bollettini di Vigilanza Meteo ed in caso di evento eccezionale viene redatta una relazione più dettagliata per aiutare il lavoro della Protezione Civile.

Figura 18: Bollettino di vigilanza meteo del giorno 16 novembre 2010 (fonte: Centro Funzionale Centrale).